Premiati
5° Concorso Letterario Nazionale Amilcare Solferini 2020
Premiati
1° Concorso Lingua Piemontese
Gipo Farassino 2020
Fusi Marco
1° Classificata Categoria Racconto Breve
Concorso Letterario Nazionale Amilcare Solferini 2020
INCAUTOVELOX
Quella che sto per raccontarvi è una storia di ordinaria follia, o forse di
straordinaria intelligenza, perché dipende da che lato la si guarda.
Nel corso degli anni ai bordi delle strade, pali semafori e cartelli pubblicitari
crebbero come funghi, tanto che ormai nessuno più ci faceva caso.
Improvvisamente e direi pure proditoriamente un giorno apparvero funghi dai
colori sgargianti, rossi e arancioni, molto pericolosi, velenosissimi.
A differenza dei veri funghi non eravamo noi a coglierli, ma loro a
cogliere noi, ed erano grandi dolori di pancia e di portafogli.
Erano comparsi loro, i maledetti Autovelox, il terrore cominciò a serpeggiare
circolando in nelle arterie a grande scorrimento degli automobilisti.
Li mettevano per la sicurezza di tutti dicevano con voce commossa, ma
la verità era che , complice governo e regioni colpevoli di aver tagliato tutto il
tagliabile, comprese le forbici per le inaugurazioni, l’orrida macchinetta
serviva a ripianare i bilanci in deficit dei poveri comuni.
Più si assottigliavano le rimesse dal potere centrale e più i comuni si
inventavano marchingegni e trabocchetti degni di un novello Machiavelli.
Per far cassa un comune pensò bene di mettere tre autovelox in fila
a 50 metri l’uno dall’altro, e al poveretto che si presentava a conciliare
con tre multe in mano, il serafico vigile urbano diceva che era fortunato
perché ne avrebbe pagate solo un paio, dato che quella settimana c’era
l’offerta 3 x 2.
Poi si andò sempre più peggiorando, spesso venivano piazzati in fondo alle
discese e con il limite dei 50 orari, o appena dietro curve cieche, e multarono
anche i pedoni che superavano i 90…chili.
I turisti che tornavano dalle vacanze non facevano vedere agli amici le foto
dei posti dove erano stati, ma quelle degli autovelox in cui erano incappati.
L’odio serpeggiava tra la popolazione, all’inizio si ebbero solo risposte
goliardiche, tipo mettere un passamontagna a coprire l’autovelox
Come di chi sta per effettuare una rapina, ma poi sfociò in qualcosa
di inaspettato e in parte condiviso dalla popolazione tutta.
Abbandonato vicino ad un autovelox divelto si trovò un volantino
delle BL ( che non erano brigate rosse made in china ), l’acronimo stava
Per Brigate Lumaca, perché tale era la velocità che si doveva assumere
per rimanere entro i limiti di velocità imposti dalle infernali macchinette.
In città i brigatisti non osavano agire, ma in campagna era tutta un’altra cosa,
spesso gli autovelox venivano oscurati con lo spray ( l’idea era venuta
durante il carnevale ), in alcuni casi gli si sparava, o venivano divelti, fatti
a pezzi, o bruciati, per poi spargerne le ceneri sui rallentatori artificiali.
Lo Stato non poteva tollerare una siffatta situazione di anarchia stradale
e senza farsi troppa pubblicità decise di passare al contrattacco, creando
Una squadra speciale di polizia denominata DUNA ( chiaro riferimento
all’unica auto che osservava i limiti di velocità anche non volendo ).
A dir il vero non riuscirono ad ottenere grandi risultati, impossibile cogliere
sul fatto i Biellini, troppi erano gli autovelox da sorvegliare.
L’idea buona l’ebbe un capitano, detto Ultimo ( perché così si era piazzato
al concorso per entrare in polizia), il quale propose di piazzare telecamere
Debitamente occultate nei pressi degli autovelox più colpiti.
un mese dopo venne colta sul fatto una intera cellula di brigatisti intenta
A segare in due l’odiata macchinetta.
I giornali dettero ampio eco al fatto, i colpevoli finirono al carcere duro,
l’intento era chiaro, portare qualcuno di loro al pentimento e poi a
collaborare con la giustizia.
Il più giovane, che venne appurato era privo di patente in quanto gli erano
stati decurtati più di 35 punti per eccesso di velocità alla fine crollò.
Fece cosi tanto velocemente i nomi di tutti i terroristi del BL che
venne multato per l’ennesima volta.
In cambio gli restituirono la patente e 100 punti in più, che bontà sua
condivise con i secondini del carcere, più un viaggio premio a Venezia
dove avrebbe capito l’importanza di andare a passo d’uomo.
La retata che ne conseguì fece impallidire quella di Simon Pietro di cui i
vangeli tanto favoleggiano, e il cancro anti limite di velocità venne
estirpato, o almeno così si credeva.
Solamente una decina di giorni dopo un fatto misterioso avvenne,
presumibilmente durante la notte, tutti gli autovelox di una intera
regione erano misteriosamente spariti, dai primi riscontri era stato
evidente che fossero stati completamente strappati dalla loro sede.
Interrogato, il capo della polizia fece scena muta, interrogando a sua
volta il capo della Duna, ma anche in questo caso no comment.
Come risolvere il mistero?, ah , non fossero state tolte le telecamere…!
“Forse, credo, ce ne siamo dimenticata una”……disse capitan ultimo.
“Che aspettate allora?” disse il capo della polizia, portatemi il filmato
di ieri notte, presto.
Venti occhi polizieschi guardarono con ansia lo schermo: ”ecco..ecco,
guardate…” , ma non si vedeva nulla, se non un autovelox che una forza
misteriosa e invisibile strappava da terra per portarlo verso il cielo.
“ma cos’è quello lassù? , dove l’ autovelox si sta dirigendo?”
“cacchio” disse il capo della polizia , “ma è un UFO, ci mancavano solo
i marziani.”
Ovviamente la notizia non venne divulgata, ma era finalmente la risposta
a un quesito che da tempo attanagliava gli studiosi: ”c’è vita intelligente
nell’universo?”
A giudicare dalla sparizione degli autovelox la risposta è..certamente che .. Sì…!!!!
Risveglio di una città
Le vie toccate
dal vento
i palazzi e odore di caffè,
i lampioni senza luce,
un signore che si ferma,
un altro seduto
con i suoi pensieri.
Corsi Alessandro
2° Classificata Categoria Racconto Breve Over Concorso Letterario Nazionale Amilcare Solferini 2020
UN SORRISO ED UN SALUTO
Si chiamava Giovanna ed era una barbona, tranquillissima nella sua soli= tudine. Con la sua figura non molto alta, e pingue, era diventato un perso= naggio tipico del quartiere.
Sul volto aveva una perenne espressione sorridente, serena.
Le sue giornate le trascorreva vagabondando pacatamente per il centro cittadino.
Portava con sé un paio di enormi buste di plastica, contenenti ogni suo bene terreno.
Le sue abluzioni mattutine generalmente le faceva ad una fontanella pub= blica, scambiando amichevoli saluti con i passanti.
-0-
Stefano lavorava in una libreria non lontana da casa. Gli piaceva stare a contatto con la gente, parlare di libri. Sorrideva sempre.
Giovanna lo aveva notato un pomeriggio, dopo essersi seduta su di una panchina della piazza sulla quale si affacciava il negozio.
Era rimasta affascinata dalla sua figura, dal suo perenne sorriso. Si ac= corse che era l’uomo della sua vita, quello che aveva atteso da sempre.
Rimaneva per ore a guardarlo, estasiata da ogni suo movimento. Appaga= ta da ogni suo sorriso, per quanto piccolo e fugace.
Stefano l’aveva notata. Era rimasto stupito del suo aspetto curato, nono= stante la sua vita.
Uscendo dalla libreria per andare a casa, all’ora di pranzo, non era raro che la trovasse sulla panchina antistante la vetrina. Cominciò a sorriderle, quando vide che lo fissava accennando a sua volta un timido sorriso.
Non gli passò mai per la testa che potesse essersi innamorata di lui. Lui che era sposato, padre di tre figli.
Giovanna cominciò a sognare di una vita diversa da quella che conduce= va, e che aveva scelta.
Sapeva di averlo fatto, ma senza ricordarsene la ragioni.
Era sempre stata felice, in quell’eterno momento presente che racchiude= va ogni cosa di lei. Fino a quando si era innamorata.
Non sapeva come si chiamasse, l’uomo della sua vita, non aveva modo di saperlo: ma lo amava disperatamente. Niente altro contava.
Le sue abluzioni mattutine iniziarono ad essere più metodiche, prese a curare di più il proprio aspetto. Per quanto le era possibile dava spazio alla propria civetteria, sentendosene compiaciuta.
Era tornata a sentirsi una donna, dopo quanto non ricordava più.
Una mattina aveva trovato un mazzo di rose rosse, nei pressi di un casso= netto. I petali erano malconci, ma a lei parvero bellissimi: un segno del de= stino.
Raccolse i fiori con cura, li sistemò con le dita dalle unghie sporche e spezzate.
Sorridendo al mondo ed a sé stessa si diresse verso la libreria, dove a= vrebbe omaggiato il suo amore del mazzo che il fato le aveva fatto trovare.
Giunse davanti al negozio che Stefano stava arrivando, non da solo: con lui c’erano una donna, bella ed elegante, e tre stupendi bambini.
Vide l’amore della sua vita abbracciare quella che doveva essere sua mo= glie, salutare con amore quelli che dovevano essere i loro tre figli.
Si sentì crollare il mondo addosso, quel mondo che riteneva non potesse più farle del male.
Senza accorgersene lasciò cadere le rose a terra, arretrando con lo sguar= do fisso sul gruppetto. Ogni effusione era una pugnalata che le veniva in= ferta.
Nulla le aveva promesso, l’amore della sua vita: tutto le stava togliendo,
del niente che le era rimasto.
Quando il gruppetto si sciolse Giovanna si sentì più sola che mai.
Guardò verso il cielo, domandandosi che cosa ci stava a fare nel mondo.
Sentendosi stanca come mai le era accaduto arrancò fino alla panchina più vicina, sulla quale si lasciò cadere.
Sollevando lo sguardo vide le vetrine della libreria.
Con un sorriso ed un cenno di saluto si accommiatò dal tempo.
E soprattutto dall’uomo che le aveva inconsapevolmente donato dei momenti di paradiso.
Debernardi Cinzia
3° Classificata Categoria Racconto Breve Over Concorso Letterario Nazionale Amilcare Solferini 20120
METTO E IL MULINO
Era spuntato durante la primavera di uno dei tanti anni del diciottesimo secolo. Sua madre , la Grande Quercia del Boschetto di Rodallo , lo aveva chiamato Metto. Non che fosse un nome molto originale per un rametto di quercia ! Metto, rispetto ai suoi tanti fratelli e fratellini, era il più fortunato perché era quello posto più in alto. Era il primo ad accogliere i raggi del sole all’alba; era il primo a salutare Madonna Luna al tramonto quando prende il posto di Messer Sole; era il primo ad accorgersi dell’arrivo della primavera quando l‘aria diventa più tiepida ; era il primo a fremere , nudo senza foglie, sotto i primi fiocchi di neve che Messer Inverno regala copiosi ; era il primo a vestirsi dei mille colori dell’autunno …
Era il primo ma lui si sentiva l’ultimo .
Lo scorrere inarrestabile e monotono delle stagioni lo annoiava . Certo, diventava sempre più lungo e robusto ma a cosa sarebbe servito ? Sarebbe rimasto sempre lì fermo , o al massimo mosso da qualche folata di vento, a guardare le corse degli scoiattoli innamorati , il grufolare del cinghiale alla ricerca di qualche grosso tubero da ingurgitare in men che non si dica, la corsa veloce del topino che cercava di fuggire dalle affilate unghie di Otta la poiana o di Vitto il gufo …
Tutto scorreva inesorabilmente allo stesso modo finchè un giorno un giovane biondino, magro e allampanato, si sedette a gambe incrociate ai piedi della Grande Quercia e tirò fuori dei fogli su cui erano schizzati dei progetti di un mulino. Metto dall’alto, sbirciando fra le foglie dei suoi fratelli, cercando di vedere meglio, cominciò a curvarsi sempre più verso il basso. Sempre di più. Sempre di più. TOC! Metto sentì un dolore lancinante e acuto e cominciò a cadere verso il basso fino a capitombolare su uno degli schizzi del giovane ingegnere che ebbe un sussulto. Metto era finito proprio al posto del davanzale della finestra del mulino. Romualdo , il giovane ingegnere , nel vedere quel rametto esattamente dove Isabelda, la figlia del mugnaio di cui da sempre era innamorato , avrebbe appoggiato i gomiti sbirciando fuori dalla finestra in attesa del suo arrivo, si sciolse in sospiri e sogni ed ebbe la certezza di come sarebbe stato il mulino. Romualdo, felice di aver finalmente capito quale fosse il progetto migliore, partì di gran carriera per andarlo a presentare ai tre ricchi proprietari terrieri che gli avevano commissionato l’opera.
E Metto?
Romualdo lo custodì gelosamente e , si dice, lo abbia poi fatto incastonare proprio nel davanzale del mulino. Da lì Metto, fra polvere di farina, cullato dallo scorrere incessante dell’acqua, fu custode dei sussurri amorosi fra Romuado e Isabelda, ha visto l’incedere di contadini stanchi ma soddisfatti, ha visto il lento declino del lavoro al mulino, ha visto volti, sorrisi, qualche lacrima. Ha avuto caldo ed ha avuto freddo. Ha sperato di essere altrove ed è stato felice di essere dove era.
Dopo trecento anni Metto ora ha una certezza: per essere felici basta semplicemente saper guardare con occhi nuovi quello che ci circonda e non smettere di sognare. Mai!
Debernardi Cinzia
3° Classificata Categoria Racconto Breve Over Concorso Letterario Nazionale Amilcare Solferini 20120
METTO E IL MULINO
Era spuntato durante la primavera di uno dei tanti anni del diciottesimo secolo. Sua madre , la Grande Quercia del Boschetto di Rodallo , lo aveva chiamato Metto. Non che fosse un nome molto originale per un rametto di quercia ! Metto, rispetto ai suoi tanti fratelli e fratellini, era il più fortunato perché era quello posto più in alto. Era il primo ad accogliere i raggi del sole all’alba; era il primo a salutare Madonna Luna al tramonto quando prende il posto di Messer Sole; era il primo ad accorgersi dell’arrivo della primavera quando l‘aria diventa più tiepida ; era il primo a fremere , nudo senza foglie, sotto i primi fiocchi di neve che Messer Inverno regala copiosi ; era il primo a vestirsi dei mille colori dell’autunno …
Era il primo ma lui si sentiva l’ultimo .
Lo scorrere inarrestabile e monotono delle stagioni lo annoiava . Certo, diventava sempre più lungo e robusto ma a cosa sarebbe servito ? Sarebbe rimasto sempre lì fermo , o al massimo mosso da qualche folata di vento, a guardare le corse degli scoiattoli innamorati , il grufolare del cinghiale alla ricerca di qualche grosso tubero da ingurgitare in men che non si dica, la corsa veloce del topino che cercava di fuggire dalle affilate unghie di Otta la poiana o di Vitto il gufo …
Tutto scorreva inesorabilmente allo stesso modo finchè un giorno un giovane biondino, magro e allampanato, si sedette a gambe incrociate ai piedi della Grande Quercia e tirò fuori dei fogli su cui erano schizzati dei progetti di un mulino. Metto dall’alto, sbirciando fra le foglie dei suoi fratelli, cercando di vedere meglio, cominciò a curvarsi sempre più verso il basso. Sempre di più. Sempre di più. TOC! Metto sentì un dolore lancinante e acuto e cominciò a cadere verso il basso fino a capitombolare su uno degli schizzi del giovane ingegnere che ebbe un sussulto. Metto era finito proprio al posto del davanzale della finestra del mulino. Romualdo , il giovane ingegnere , nel vedere quel rametto esattamente dove Isabelda, la figlia del mugnaio di cui da sempre era innamorato , avrebbe appoggiato i gomiti sbirciando fuori dalla finestra in attesa del suo arrivo, si sciolse in sospiri e sogni ed ebbe la certezza di come sarebbe stato il mulino. Romualdo, felice di aver finalmente capito quale fosse il progetto migliore, partì di gran carriera per andarlo a presentare ai tre ricchi proprietari terrieri che gli avevano commissionato l’opera.
E Metto?
Romualdo lo custodì gelosamente e , si dice, lo abbia poi fatto incastonare proprio nel davanzale del mulino. Da lì Metto, fra polvere di farina, cullato dallo scorrere incessante dell’acqua, fu custode dei sussurri amorosi fra Romuado e Isabelda, ha visto l’incedere di contadini stanchi ma soddisfatti, ha visto il lento declino del lavoro al mulino, ha visto volti, sorrisi, qualche lacrima. Ha avuto caldo ed ha avuto freddo. Ha sperato di essere altrove ed è stato felice di essere dove era.
Dopo trecento anni Metto ora ha una certezza: per essere felici basta semplicemente saper guardare con occhi nuovi quello che ci circonda e non smettere di sognare. Mai!